Storiografia e ufficialità, scrittura della storia e celebrazione encomiastica: spesso, pur se non sempre con corretta impostazione, si è affrontato il nesso tra narrazione di eventi e propaganda. Un nesso che appare molto evidente soprattutto alla corte di Alfonso I d’Aragona, il Magnanimo. Egli è tra i primi – se non il primo in assoluto – signori che, in territorio italico, si dota di storiografi stipendiati apposta per scrivere e raccontare le sue imprese, secondo una prassi che, con ogni evidenza, sembra essere stata importata dalla Catalogna e dalla Castiglia (terra d’origine della dinastia di Trastàmara). Dunque, risulta molto probabile che sia stato proprio Alfonso a imporre una tradizione storiografico-celebrativa di matrice “ispanica” anche in Italia meridionale (dove da secoli non venivano più scritte opere di quel tipo), e che da lì si sia irradiata anche altrove, fecondando quei primitivi germi con le attente e approfondite riflessioni sulla historia conscribenda che infiammano le discussioni dei più illustri umanisti dell’epoca. Proprio alla corte di Alfonso, infatti, ebbe luogo uno dei confronti (o, per meglio dire, scontri, consumati a colpi di trattati) ideologici sul significato della storia e sul modo in cui essa debba essere scritta: quello tra Lorenzo Valla, da un lato, e Bartolomeo Facio e il Panormita dall’altro. Valla riteneva che compito precipuo della storia fosse la ricerca e l’affermazione della veritas; invece, con contrapposto ideale celebrativo, Facio e il Panormita propendevano per una storiografia glorificante, che, ricorrendo all’espediente della brevitas, eliminasse il ricordo di tutto ciò che sarebbe potuto risultare sconveniente o inadatto alla dignità regia. Insomma, secondo questo principio, Facio affermava che non doveva essere ricordato tutto il vero, perché esso poteva contrastare col verosimile: una dichiarazione che suona come una teorizzazione della falsificazione cosciente degli eventi della storia, che viene fatta passare attraverso il canale del decoro retorico. Le varie descrizioni – o, a questo punto, riscritture – della presa di Marsiglia da parte di Alfonso (1423), e del conseguente trafugamento delle spoglie di san Luigi (fratello di re Roberto, santo della dinastia angioina alla quale Alfonso stava tentando di strappare il Regno), offrono una chiara caratterizzazione di questo processo di evoluzione della storiografia celebrativa: un processo che trova snodi importanti nella figura di Gaspare Pellegrino (o, alla catalana, Gaspar Pelegrí), medico personale di Alfonso, che per primo prova ad adattare i modelli storiografici catalani alla memoria della classicità radicata in Italia (Alfonso è equiparato a Enea, il Regno dell’Italia meridionale è sistematicamente chiamato Latium); e in quella di Bartolomeo Facio, che, con maggiore attrezzatura teorica e linguistica, porta a più compiuta realizzazione il genere storiografico-encomiastico: un genere destinato a un ampio successo, soprattutto lì dove si stavano affermando quelle gestioni del potere monocratiche, che meglio di ogni altra si adattavano a una tradizione narrativa che da sempre focalizzava la propria attenzione prevalentemente sulle imprese dei singoli.
Le riscritture della storia: Alfonso il Magnanimo e la presa di Marsiglia nella storiografia coeva
DELLE DONNE, FULVIO
2012-01-01
Abstract
Storiografia e ufficialità, scrittura della storia e celebrazione encomiastica: spesso, pur se non sempre con corretta impostazione, si è affrontato il nesso tra narrazione di eventi e propaganda. Un nesso che appare molto evidente soprattutto alla corte di Alfonso I d’Aragona, il Magnanimo. Egli è tra i primi – se non il primo in assoluto – signori che, in territorio italico, si dota di storiografi stipendiati apposta per scrivere e raccontare le sue imprese, secondo una prassi che, con ogni evidenza, sembra essere stata importata dalla Catalogna e dalla Castiglia (terra d’origine della dinastia di Trastàmara). Dunque, risulta molto probabile che sia stato proprio Alfonso a imporre una tradizione storiografico-celebrativa di matrice “ispanica” anche in Italia meridionale (dove da secoli non venivano più scritte opere di quel tipo), e che da lì si sia irradiata anche altrove, fecondando quei primitivi germi con le attente e approfondite riflessioni sulla historia conscribenda che infiammano le discussioni dei più illustri umanisti dell’epoca. Proprio alla corte di Alfonso, infatti, ebbe luogo uno dei confronti (o, per meglio dire, scontri, consumati a colpi di trattati) ideologici sul significato della storia e sul modo in cui essa debba essere scritta: quello tra Lorenzo Valla, da un lato, e Bartolomeo Facio e il Panormita dall’altro. Valla riteneva che compito precipuo della storia fosse la ricerca e l’affermazione della veritas; invece, con contrapposto ideale celebrativo, Facio e il Panormita propendevano per una storiografia glorificante, che, ricorrendo all’espediente della brevitas, eliminasse il ricordo di tutto ciò che sarebbe potuto risultare sconveniente o inadatto alla dignità regia. Insomma, secondo questo principio, Facio affermava che non doveva essere ricordato tutto il vero, perché esso poteva contrastare col verosimile: una dichiarazione che suona come una teorizzazione della falsificazione cosciente degli eventi della storia, che viene fatta passare attraverso il canale del decoro retorico. Le varie descrizioni – o, a questo punto, riscritture – della presa di Marsiglia da parte di Alfonso (1423), e del conseguente trafugamento delle spoglie di san Luigi (fratello di re Roberto, santo della dinastia angioina alla quale Alfonso stava tentando di strappare il Regno), offrono una chiara caratterizzazione di questo processo di evoluzione della storiografia celebrativa: un processo che trova snodi importanti nella figura di Gaspare Pellegrino (o, alla catalana, Gaspar Pelegrí), medico personale di Alfonso, che per primo prova ad adattare i modelli storiografici catalani alla memoria della classicità radicata in Italia (Alfonso è equiparato a Enea, il Regno dell’Italia meridionale è sistematicamente chiamato Latium); e in quella di Bartolomeo Facio, che, con maggiore attrezzatura teorica e linguistica, porta a più compiuta realizzazione il genere storiografico-encomiastico: un genere destinato a un ampio successo, soprattutto lì dove si stavano affermando quelle gestioni del potere monocratiche, che meglio di ogni altra si adattavano a una tradizione narrativa che da sempre focalizzava la propria attenzione prevalentemente sulle imprese dei singoli.File | Dimensione | Formato | |
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