Il contributo intende presentare la relazione fra la monarchia e il mondo degli ordini religiosi “nuovi” come un rapporto dinamico e dialettico in costante divenire. A partire dal regno di Guglielmo II infatti, parallelamente al consolidarsi delle strutture istituzionali dei “nuovi” ordini, si assistette al loro solido radicamento sul territorio, che corrispose ad una espansione e ad una stabilizzazione patrimoniale. Nel Regnum la monarchia operò per raggiungere una generale stabilità politica, ottenuta attraverso un mirato ed efficace coordinamento dei poteri locali. In questo senso allora anche il monachesimo partecipava all’esercizio del potere regio, spesso attraverso la mediazione di personaggi provenienti dal mondo monastico, attivi presso la curia e fortemente legati agli ambienti di corte. Il momento di passaggio dalla monarchia normanna a quella sveva condusse ad un sempre più significativo coinvolgimento delle istituzioni monastiche nei contesti politici, pur non arrivando mai nel regno normanno-svevo a svolgere il ruolo ricoperto oltralpe dai monasteri cistercensi e dalle canoniche premonstratensi di fondazione regia. Nei territori dell’impero gli enti monastici e canonicali erano uno strumento per i sovrani capace di garantire il diretto e incondizionato controllo regio su ampie zone di territorio, eliminando pertanto la possibile concorrenza messa in atto dall’aristocrazia feudale. Nel regno del Mezzogiorno i nuovi ordini, forse ancor più del monachesimo tradizionale, agirono come importanti interlocutori del potere e attraverso le reti di alleanze garantirono il sostegno della nobiltà locale ad essi collegata. Nel periodo successivo all’incoronazione imperiale di Federico II e sino agli anni Trenta la beneficienza e la munificenza del sovrano si tradussero in privilegi contenenti donazioni singole di terre e di diritti, destinati a varie istituzioni, ma al tempo stesso anche in concessioni di protezione e di esenzione complessive, destinate ad interi ordini religiosi. Ad essi si affiancarono, in particolare dopo le disposizioni stabilite a Capua, i mandata diretti a funzionari regi con lo specifico incarico di difendere gli enti monastici dalle revocationes. Gli ordini “nuovi” che godettero in questi anni nel regno di Sicilia di una particolare attenzione furono i cistercensi, i verginiani e i florensi, ad essi si affiancarono, anche se in modo molto meno significativo, i pulsanesi. I repentini cambiamenti nello scenario politico degli anni Trenta e l’acuirsi del conflitto con il papa modificarono l’interesse del sovrano nei confronti dei monasteri. Federico II si disinteressò quasi completamente degli ordini religiosi, ormai per lo più schierati dalla parte del pontefice. Il privilegio in forma di donazione e di esenzione accordato a singole comunità o ad interi ordini fu progressivamente sostituito da lettere e da mandati, destinati a regolare gli interventi dei funzionari pubblici e dei giustizieri, secondo una logica che meglio rispondeva alle esigenze operative del regno nella nuova costellazione politica. La strategia delle relazioni personali continuava ad esistere ed essa, ancor più che in passato, diventava l’unica testimonianza di un rapporto con la corte e di un solido contatto con l’apparato burocratico e amministrativo, elementi ormai necessari per ottenere da parte degli ordini la difesa dello stato patrimoniale raggiunto e l’assicurazione di continuare a godere degli antichi privilegi. Gli ultimi ad abbandonare l’imperatore nella seconda alla metà degli anni Trenta furono i cistercensi. Gli esponenti dell’ordine di Cîteaux, attivi come mediatori fra le parti, nel nuovo precipitoso volgere degli eventi e di fronte all’atteggiamento intransigente di Federico II abbandonarono definitivamente sia nel regno di Sicilia, sia nei territori dell’impero, il fronte federiciano. La presenza tuttavia di tensioni religiose e di alcuni sporadici scismi, originatisi entro le comunità monastiche, in particolare presso i florensi, lasciano intravedere come i giochi delle alleanze in quel difficile momento fossero ormai strettamente collegati agli interessi locali delle singole fondazioni e della nobiltà, che continuava ad essere la loro principale sostenitrice. Solo a partire dagli anni Quaranta del secolo XIII alcuni ordini legati per tradizione familiare alla dinastia sveva nel Mezzogiorno, quali la rete di monasteri collegata a Montevergine e quella dei florensi, riaprirono un dialogo con l’imperatore ed ottennero da lui speciali riconoscimenti di antichi privilegi.
Gli ordini "nuovi" come ‘instrumenta regni’. Linee di continuità e cambiamenti di una politica monastica?
ANDENNA, CRISTINA
2010-01-01
Abstract
Il contributo intende presentare la relazione fra la monarchia e il mondo degli ordini religiosi “nuovi” come un rapporto dinamico e dialettico in costante divenire. A partire dal regno di Guglielmo II infatti, parallelamente al consolidarsi delle strutture istituzionali dei “nuovi” ordini, si assistette al loro solido radicamento sul territorio, che corrispose ad una espansione e ad una stabilizzazione patrimoniale. Nel Regnum la monarchia operò per raggiungere una generale stabilità politica, ottenuta attraverso un mirato ed efficace coordinamento dei poteri locali. In questo senso allora anche il monachesimo partecipava all’esercizio del potere regio, spesso attraverso la mediazione di personaggi provenienti dal mondo monastico, attivi presso la curia e fortemente legati agli ambienti di corte. Il momento di passaggio dalla monarchia normanna a quella sveva condusse ad un sempre più significativo coinvolgimento delle istituzioni monastiche nei contesti politici, pur non arrivando mai nel regno normanno-svevo a svolgere il ruolo ricoperto oltralpe dai monasteri cistercensi e dalle canoniche premonstratensi di fondazione regia. Nei territori dell’impero gli enti monastici e canonicali erano uno strumento per i sovrani capace di garantire il diretto e incondizionato controllo regio su ampie zone di territorio, eliminando pertanto la possibile concorrenza messa in atto dall’aristocrazia feudale. Nel regno del Mezzogiorno i nuovi ordini, forse ancor più del monachesimo tradizionale, agirono come importanti interlocutori del potere e attraverso le reti di alleanze garantirono il sostegno della nobiltà locale ad essi collegata. Nel periodo successivo all’incoronazione imperiale di Federico II e sino agli anni Trenta la beneficienza e la munificenza del sovrano si tradussero in privilegi contenenti donazioni singole di terre e di diritti, destinati a varie istituzioni, ma al tempo stesso anche in concessioni di protezione e di esenzione complessive, destinate ad interi ordini religiosi. Ad essi si affiancarono, in particolare dopo le disposizioni stabilite a Capua, i mandata diretti a funzionari regi con lo specifico incarico di difendere gli enti monastici dalle revocationes. Gli ordini “nuovi” che godettero in questi anni nel regno di Sicilia di una particolare attenzione furono i cistercensi, i verginiani e i florensi, ad essi si affiancarono, anche se in modo molto meno significativo, i pulsanesi. I repentini cambiamenti nello scenario politico degli anni Trenta e l’acuirsi del conflitto con il papa modificarono l’interesse del sovrano nei confronti dei monasteri. Federico II si disinteressò quasi completamente degli ordini religiosi, ormai per lo più schierati dalla parte del pontefice. Il privilegio in forma di donazione e di esenzione accordato a singole comunità o ad interi ordini fu progressivamente sostituito da lettere e da mandati, destinati a regolare gli interventi dei funzionari pubblici e dei giustizieri, secondo una logica che meglio rispondeva alle esigenze operative del regno nella nuova costellazione politica. La strategia delle relazioni personali continuava ad esistere ed essa, ancor più che in passato, diventava l’unica testimonianza di un rapporto con la corte e di un solido contatto con l’apparato burocratico e amministrativo, elementi ormai necessari per ottenere da parte degli ordini la difesa dello stato patrimoniale raggiunto e l’assicurazione di continuare a godere degli antichi privilegi. Gli ultimi ad abbandonare l’imperatore nella seconda alla metà degli anni Trenta furono i cistercensi. Gli esponenti dell’ordine di Cîteaux, attivi come mediatori fra le parti, nel nuovo precipitoso volgere degli eventi e di fronte all’atteggiamento intransigente di Federico II abbandonarono definitivamente sia nel regno di Sicilia, sia nei territori dell’impero, il fronte federiciano. La presenza tuttavia di tensioni religiose e di alcuni sporadici scismi, originatisi entro le comunità monastiche, in particolare presso i florensi, lasciano intravedere come i giochi delle alleanze in quel difficile momento fossero ormai strettamente collegati agli interessi locali delle singole fondazioni e della nobiltà, che continuava ad essere la loro principale sostenitrice. Solo a partire dagli anni Quaranta del secolo XIII alcuni ordini legati per tradizione familiare alla dinastia sveva nel Mezzogiorno, quali la rete di monasteri collegata a Montevergine e quella dei florensi, riaprirono un dialogo con l’imperatore ed ottennero da lui speciali riconoscimenti di antichi privilegi.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.