La mente, nella cultura filosofico-scientifica occidentale, è stata per lungo tempo rappresentata come un sistema di specchi installati di fronte a una realtà in progressione dinamica. Come potrebbe uno specchio – costitutivamente estraneo alla realtà che fronteggia – riflettere di questa non solo immagini superficiali, ma anche configurazioni in grado di riprodurre fedelmente i processi interni, non visibili, della sua formazione? Dopo Kant ed Hegel, Bergson attinge ad un «pensiero-limite» che gli consente di leggere il mondo della coscienza come un modo d’essere «estremo». Guardando con coraggio nei fondali oceanici del moi profond, Bergson inaugura un originale percorso di riscoperta dell’assoluto nel limite spazio-temporale del moi social attraverso un nuovo modo di vivere il tempo e il rapporto mente/corpo. In questa cornice, il distacco del soggetto dalla realtà intuita mediante l’atto della visione, consente a Bergson di sviluppare l’indagine dello sfondo virtuale della percezione e dei suoi universi di senso anteriori. Agli occhi del filosofo, il fenomeno anomalo della vision panoramique des mourants acquista così la funzione di ricordare al soggetto che le proprie azioni devono essere prese sul serio, perché tutto ciò che egli è stato e che sarà si conserva fatalmente nel ricordo, fino all’ultimo istante di vita. La dialettica morale del limite e della visione, e la sua politicità, consente di tradurre filosoficamente una situazione complessa, allorché il passato impone alla soggettività umana di essere moralmente responsabile delle proprie azioni future, per non doverle invece ratificare solo in momenti «limite» di grande urgenza. Rileggere oggi Bergson a partire dal rapporto tra il limite e la visione contribuisce a restituirci un’immagine inedita del grande filosofo francese.

La visione di Bergson. Tempo ed esperienza del limite

Riccardo Roni
2015-01-01

Abstract

La mente, nella cultura filosofico-scientifica occidentale, è stata per lungo tempo rappresentata come un sistema di specchi installati di fronte a una realtà in progressione dinamica. Come potrebbe uno specchio – costitutivamente estraneo alla realtà che fronteggia – riflettere di questa non solo immagini superficiali, ma anche configurazioni in grado di riprodurre fedelmente i processi interni, non visibili, della sua formazione? Dopo Kant ed Hegel, Bergson attinge ad un «pensiero-limite» che gli consente di leggere il mondo della coscienza come un modo d’essere «estremo». Guardando con coraggio nei fondali oceanici del moi profond, Bergson inaugura un originale percorso di riscoperta dell’assoluto nel limite spazio-temporale del moi social attraverso un nuovo modo di vivere il tempo e il rapporto mente/corpo. In questa cornice, il distacco del soggetto dalla realtà intuita mediante l’atto della visione, consente a Bergson di sviluppare l’indagine dello sfondo virtuale della percezione e dei suoi universi di senso anteriori. Agli occhi del filosofo, il fenomeno anomalo della vision panoramique des mourants acquista così la funzione di ricordare al soggetto che le proprie azioni devono essere prese sul serio, perché tutto ciò che egli è stato e che sarà si conserva fatalmente nel ricordo, fino all’ultimo istante di vita. La dialettica morale del limite e della visione, e la sua politicità, consente di tradurre filosoficamente una situazione complessa, allorché il passato impone alla soggettività umana di essere moralmente responsabile delle proprie azioni future, per non doverle invece ratificare solo in momenti «limite» di grande urgenza. Rileggere oggi Bergson a partire dal rapporto tra il limite e la visione contribuisce a restituirci un’immagine inedita del grande filosofo francese.
2015
9788857528878
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11563/190719
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